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    La piccola Giada piangeva piano piano a lacrime grosse, senza singhiozzi. Io potevo solo piangere con lei: non certo uscir fuori dal nido d’ombra che mi custodiva e difenderla con dita scarnite dal passato, con voce fievole come il pigolio d’un merlo appena nato.Ci sarebbe voluto il rombo del tuono che fa tremare i vetri delle finestre, i fulmini ci sarebbero voluti, saette accecanti nel cielo scuro, gonfio di pioggia.Ma guardavo e ascoltavo le lacrime di Giada: era pur qualche cosa, questo condividere del cuore, senza sussulti, senza furori, quieta, apatica presa di coscienza che ancora accadeva ciò che da sempre era accaduto, quello che é orrore nella tenebra. (da “Le farfalle”)

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    Si era svegliata. Batté le palpebre nell’oscurità impenetrabile. Spalancò la bocca e respirò con il naso. Batté di nuovo le palpebre. Sentì scorrere una lacrima, la sentì sciogliere il sale lasciato da altre lacrime. La saliva non le scendeva più in gola, il cavo orale era secco e duro. La pressione interna tendeva le guance. Era come se il corpo estraneo che aveva in bocca fosse sul punto di farle esplodere la testa. Ma che cos’era, che cos’era? Il primo pensiero concepito al risveglio era stato che avrebbe voluto sprofondare di nuovo. Sprofondare in quell’avvolgente abisso buio e caldo. L’effetto dell’iniezione che l’uomo le aveva fatto non era ancora finito, ma lei sapeva che il dolore incombeva, lo capiva dai lenti, sordi colpi che scandivano le pulsazioni e dal flusso spasmodico del sangue nel cervello. Lui dov’era? Era proprio alle sue spalle? Trattenne il respiro, rimase in ascolto. Non udì nulla, però ne percepiva la presenza. Come un leopardo.