A Napoli se po’ mangià sulo pizza e spaghetti. ‘Na vota tornai a casa mia all’improvviso accussì. Bussai alla porta e sentette mio padre che diceva: “Chi è?”. “Sono Massimo”. Mio padre aprì e disse: “Meno male che si tu, viene avanti e chiude’a porta – presto! – stammo magnanno ‘e gnocchi”
Ma adesso sono qui e i miei dormono e le cose intorno a me cantano, hanno belle voci, che rieccheggiano tempeste e cieli sereni, hanno visto tanto delle vite di tanti, sanno che cosa significa stare appesi ad una parete, posate sopra una cassapanca, sanno ascoltare e mi guardano e io le guardo e poi spengo il computer e nella luce dell’alba me ne esco di casa, piano piano per non far rumore, e me ne vado in campagna, là dove inizia la collina a riposarmi, mentre il sole sorge. (da “Le farfalle”)
Sesso? Preferisco una tazza di tè ogni giorno.
Il mio sogno sarebbe un harem con 15 fidanzati e nessun marito.
Fabrizio De Andrè era un diverso in quanto artista, ossia l’emarginato per eccellenza, colui che fortuna o sfortuna si trova a dover dipingere una parte di verità che i più decidono di occultare per vivere ipocritamente meglio.
Ma ciò che chiamiamo disperazione è in realtà la dolorosa impazienza della speranza non alimentata.
Vorrei essere nato al contrario per poter capire questo mondo storto.