Primo Levi – Giornata della memoria
Se non altro perché un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe oggi parlare di Provvidenza.
Se non altro perché un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe oggi parlare di Provvidenza.
Ecco la difficoltà di questi tempi: gli ideali, i sogni, le splendide speranze non sono ancora sorti in noi che già sono colpiti e completamente distrutti dalla crudele realtà. È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte il rombo l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto volgerà.
Devo dire che l’esperienza di Auschwitz è stata tale per me da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuto. C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo. Queste due ultime frasi furono aggiunte a matita sul dattiloscritto dell’intervista con Camon da Primo Levi stesso.
Difficile da riconoscere, ma era qui. Qui bruciavano la gente. Molta gente è stata bruciata qui. Si, questo è il luogo. Nessuno ripartiva mai di qui. I camion a gas arrivavano là. C’erano due immensi forni e dopo, gettavano i corpi in quei forni, e le fiamme salivano fino al cielo. Fino al cielo? Si. Era terribile. Questo non si può raccontare. Nessuno può immaginare quello che è successo qui. Impossibile. E nessuno può capirlo. E anche io, oggi non posso credere di essere qui. No, questo non posso crederlo. Qui era sempre così tranquillo. Sempre. Quando bruciavano ogni giorno 2000 persone, ebrei, era altrettanto tranquillo. Nessuno gridava. Ognuno faceva il proprio lavoro. Era silenzioso. Calmo. Come ora.
Voi mi chiederete: “Come ebreo, come hai potuto raccontare una barzelletta del genere in un momento come quello!”. È così che siamo sopravvissuti, queste sono le cose che ci hanno fatto andare avanti, il resto ce l’avevano preso i tedeschi, avevano costruito alti muri di filo spinato, per rinchiuderci nel ghetto, siamo stati isolati dal resto del mondo per anni, senza ricevere notizie.Quindi ci aggrappavamo alle piccole cose, una barzelletta macabra, una giornata di sole, un passaparola incoraggiante.
Gli abitanti del pianeta Auschwitz non avevano nomi. Non avevano né genitori né figli. Non si vestivano come si veste la gente qui. Non erano nati lì né li concepivano. Respiravano secondo le leggi di un’altra natura e non vivevano né morivano secondo le leggi di questo mondo. Il loro nome era Ka-Tzenik e la loro identità era quella del numero tatuato nella carne dell’avambraccio sinistro.
Coloro che erano sopravvissuti nei ghetti e nei campi, che erano usciti vivi dall’incubo dell’abbandono più disperato e assoluto (tutto il mondo era una giungla e loro erano la preda) non avevano che un solo desiderio: andare in un posto dove non avrebbero mai più visto un solo ebreo.
Ecco la difficoltà di questi tempi: gli ideali, i sogni, le splendide speranze non sono ancora sorti in noi che già sono colpiti e completamente distrutti dalla crudele realtà. È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte il rombo l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto volgerà.
Devo dire che l’esperienza di Auschwitz è stata tale per me da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuto. C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo. Queste due ultime frasi furono aggiunte a matita sul dattiloscritto dell’intervista con Camon da Primo Levi stesso.
Difficile da riconoscere, ma era qui. Qui bruciavano la gente. Molta gente è stata bruciata qui. Si, questo è il luogo. Nessuno ripartiva mai di qui. I camion a gas arrivavano là. C’erano due immensi forni e dopo, gettavano i corpi in quei forni, e le fiamme salivano fino al cielo. Fino al cielo? Si. Era terribile. Questo non si può raccontare. Nessuno può immaginare quello che è successo qui. Impossibile. E nessuno può capirlo. E anche io, oggi non posso credere di essere qui. No, questo non posso crederlo. Qui era sempre così tranquillo. Sempre. Quando bruciavano ogni giorno 2000 persone, ebrei, era altrettanto tranquillo. Nessuno gridava. Ognuno faceva il proprio lavoro. Era silenzioso. Calmo. Come ora.
Voi mi chiederete: “Come ebreo, come hai potuto raccontare una barzelletta del genere in un momento come quello!”. È così che siamo sopravvissuti, queste sono le cose che ci hanno fatto andare avanti, il resto ce l’avevano preso i tedeschi, avevano costruito alti muri di filo spinato, per rinchiuderci nel ghetto, siamo stati isolati dal resto del mondo per anni, senza ricevere notizie.Quindi ci aggrappavamo alle piccole cose, una barzelletta macabra, una giornata di sole, un passaparola incoraggiante.
Gli abitanti del pianeta Auschwitz non avevano nomi. Non avevano né genitori né figli. Non si vestivano come si veste la gente qui. Non erano nati lì né li concepivano. Respiravano secondo le leggi di un’altra natura e non vivevano né morivano secondo le leggi di questo mondo. Il loro nome era Ka-Tzenik e la loro identità era quella del numero tatuato nella carne dell’avambraccio sinistro.
Coloro che erano sopravvissuti nei ghetti e nei campi, che erano usciti vivi dall’incubo dell’abbandono più disperato e assoluto (tutto il mondo era una giungla e loro erano la preda) non avevano che un solo desiderio: andare in un posto dove non avrebbero mai più visto un solo ebreo.
Ecco la difficoltà di questi tempi: gli ideali, i sogni, le splendide speranze non sono ancora sorti in noi che già sono colpiti e completamente distrutti dalla crudele realtà. È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte il rombo l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto volgerà.
Devo dire che l’esperienza di Auschwitz è stata tale per me da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuto. C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo. Queste due ultime frasi furono aggiunte a matita sul dattiloscritto dell’intervista con Camon da Primo Levi stesso.
Difficile da riconoscere, ma era qui. Qui bruciavano la gente. Molta gente è stata bruciata qui. Si, questo è il luogo. Nessuno ripartiva mai di qui. I camion a gas arrivavano là. C’erano due immensi forni e dopo, gettavano i corpi in quei forni, e le fiamme salivano fino al cielo. Fino al cielo? Si. Era terribile. Questo non si può raccontare. Nessuno può immaginare quello che è successo qui. Impossibile. E nessuno può capirlo. E anche io, oggi non posso credere di essere qui. No, questo non posso crederlo. Qui era sempre così tranquillo. Sempre. Quando bruciavano ogni giorno 2000 persone, ebrei, era altrettanto tranquillo. Nessuno gridava. Ognuno faceva il proprio lavoro. Era silenzioso. Calmo. Come ora.
Voi mi chiederete: “Come ebreo, come hai potuto raccontare una barzelletta del genere in un momento come quello!”. È così che siamo sopravvissuti, queste sono le cose che ci hanno fatto andare avanti, il resto ce l’avevano preso i tedeschi, avevano costruito alti muri di filo spinato, per rinchiuderci nel ghetto, siamo stati isolati dal resto del mondo per anni, senza ricevere notizie.Quindi ci aggrappavamo alle piccole cose, una barzelletta macabra, una giornata di sole, un passaparola incoraggiante.
Gli abitanti del pianeta Auschwitz non avevano nomi. Non avevano né genitori né figli. Non si vestivano come si veste la gente qui. Non erano nati lì né li concepivano. Respiravano secondo le leggi di un’altra natura e non vivevano né morivano secondo le leggi di questo mondo. Il loro nome era Ka-Tzenik e la loro identità era quella del numero tatuato nella carne dell’avambraccio sinistro.
Coloro che erano sopravvissuti nei ghetti e nei campi, che erano usciti vivi dall’incubo dell’abbandono più disperato e assoluto (tutto il mondo era una giungla e loro erano la preda) non avevano che un solo desiderio: andare in un posto dove non avrebbero mai più visto un solo ebreo.