Mariella Buscemi – Frasi d’Amore
Il cuore fa male per nevralgia. Irrora ed irradia fino alla testa, fino al pensiero, fino alle ossessioni, fino al sonno della notte, fino agli incubi, fino alle paure.
Il cuore fa male per nevralgia. Irrora ed irradia fino alla testa, fino al pensiero, fino alle ossessioni, fino al sonno della notte, fino agli incubi, fino alle paure.
Io, tacchi? No! Io vado scalza, a piedi nudi, ché ogni cosa devo sentirla con la pelle, in qualsiasi parte. Un po’ come quando ti dico: “baciami”!
Sono quella che abbassa il tiro e si fa bersaglio, ché ho il cuore come un tiro a segno puntato da mille tiratori scelti, arcieri caustici e schernitori.
Dev’esserci qualche legame particolare tra la barba che punge ed una geisha, ché essere Donna non le basta ed un Uomo dalla pelle glabra non la completa. Dev’esserci non solo Amore e Passione, ma Seduzione, il piacere trito al dolore ed una condanna, una morsa, una trappola e modi giusti per sfuggirvi e ritornarvi di propria volontà, senza che nessuno la catturi di nuovo, ché l’anima lo sa che quello è l’unico rifugio sicuro ed insicuro al contempo. Gli sguardi che sono spiragli di pelle, preludio e non semplice promessa. Missione.
Le nostre dita intrecciate come nodi. Le nostre mani come funi.
Questo mare, vedovo del cielo, rimane nero, senza riflessi. A nulla vale alzare gli occhi in alto e cercare scritta una preghiera, ché tanto non la senti, ché tanto non la sento io, presa dall’errore del volerti: ingiustamente! Lo so!
Io non ti ho, ma ti sono perché tu mi sei; mi sei dentro. Io non voglio averti, voglio esserti, esserti altro, silenziosamente, non di carne, ma di testa e pensiero, di voglia subliminale, di necessità impellente, di esigenza costante. Mi faccio cantore del vento, ché solo il vento disperde le parole e ti sfiora durante il caldo della tristezza e della mancanza; fruscio tra le foglie che ti induce, inspiegabilmente, a voltare il capo per accorgerti di ciò che dura poco, si sente soltanto e che non c’è.
Nelle ore notturne, quando i pensieri sono tenaglie, quando il desiderio di te è tagliola, quando divento il mio peggior nemico, spaventoso pericolo, la punta di una stilografica mi trafigge, lenta, il cuore in una carezzevole quanto sadica tortura e mi abbandono alle confessioni, ai rigurgiti di passione che hanno un solo volto ed un solo nome, l’innominabile e l’irraggiungibile che così bene rifocillano il protendere smanioso verso te. Zone scure, zone chiare, salti funambolici tra mille fantasie, librarsi in aria tra abbracci virtuali, baci umidi, accennati, poi, forti. Ritorno alla mia stilografica che preme di più tra le vene pulsanti, sgorganti, grondanti sangue misto a voglia, immagino solo la tua pelle a lenirla nel suo bruciore intenso. Tu, cura delle mie ustioni scritte nell’anima.
A volte, mi cadi così, tra capo e collo. Quando non ti cerco, quando mi sottraggo, quando mi tranquillizzo a colpi di coscienza e ragione e tu riappari come un fantasma e, in realtà, io attendo queste fugaci apparizioni con le quali mi gratifico la testa. Spesso, mi cadi tra petto e pancia e ti sento come se tu fossi qui.
Non voglio svendere nulla di me: timori, vizi, difetti, pazzie. Nulla che mi riguardi andrà all’asta, vedere le mie cose in mano a qualcun altro, ad uso e consumo di funzionalità scellerate, inesperte, mi nausea al sol pensiero. Mi tengo tutto stretto, stretto con la cascata dei miei egoismi e la mia sete di possessività, radunare, compulsivamente e far mucchio per sopperire alla carestia. Così, faccio con i miei stessi sentimenti; accumulo ogni sensazione, ogni emozione per colmare l’aridità di certi cuori, la frigidità di certe carezze.
Mi scasso. Mi squarto. Mi spacco. Tuffo dall’alto verso la tua traiettoria. L’impatto è uno schianto violento. Volo donna e ne esco pesce, ma mai sirena e senza nessuna voce che incanti, senza più gambe per camminare, solo branchie per vivere dentro te e senza polmoni per vivere fuori. Nuoto, annaspo ed affogo tra i tuoi liquidi che mi dissetano e m’imbrattano.
E guardarmi sarà la tua condanna. Mi tesserai i capelli e le mie vipere morderanno. Groviglio di serpi dalle movenze flessuose. Consunti dalla pioggia, sguardo letale. Medusa. Decapita il mio cuore e sarai salvo. Parlami di perversioni cerebrali, mozzami i veleni e lascia che fluisca, rosso corallo, l’essenza del mio male, l’ossessione. Metamorfosi. Sgombra dai mistici sortilegi, ritorno donna. Mi salvi.
Mi passi attraverso gli occhi della mente. Occhi sgranati, mente sgranata. Non li chiudo mai. Mi attraversi le iridi dell’immaginazione, dipingendole del colore dei tuoi umori neri, cangianti. Mi sfondi le cornee, inglobando i globi, lisciando le ciglia, ammaccando le palpebre, pestandomi la luce che arriva dal tuo buio. Mi uccidi con le tue pose rovesciate attraverso i prismi di un caleidoscopio senza sfumature.
M’incidi la libertà che mi neghi con il bisturi del tuo sadismo. Ho la schiena candida, gaussiana dell’intero corpo che contiene il tuo diabolico gioco nell’aria sottesa delle vertebre sporgenti pronte ad accogliere le cinghiate dei tuoi rifiuti. Il tuo calco mi risiede conficcato tra i pori; nostalgica malinconia sofferente che ti invoca.
Ti creo quella sovrapposizione che, all’improvviso, si scolla, si allontana. Ti sembro vicina, ma devi patire la lontananza, come fosse resa, disfatta, misfatto. Incuto incisiva pena da scontare, ma non è crudeltà, è semplice autoafflizione, ché me ne sto tra i miei veli vedo-non vedo a nascondermi per paura e non a spiare, ché non irromperei mai in te come oggetto non desiderato, non desiderabile e mi è preferibile una presenza-assenza malcelata, ma introvabile se non su specifica richiesta alla quale piegarsi, con le mani giunte, in un “e così sia” al tuo volere.
Presenze assenti. Ingombranti. Anche l’anima diventa fantasma, così. Se vedi il mio bisogno, non aspettare che io ti chieda. Non elemosino, ma aspetto. Non aspetto che tu mi dia, ma che mi doni.
Che tu sia la strage della mia innocenza, il silenzio sulla bocca aperta il buio sugli occhi sbarrati, la paura di mezzo coraggio che vien meno, la mano mutilata che afferra l’aria, la sensazione fantasma del mio sentire, lo sguardo sinistro del mio profilo di tre quarti, l’equilibrio instabile del mio essere di spiego. Postura traballante ed oscillante appesa alle corde dei miei nervi sfilacciati.