Mattia Dalvecchio – Destino
Mi sento come un bambino, passeggero di un auto guidata da un autista chiamato destino.
Mi sento come un bambino, passeggero di un auto guidata da un autista chiamato destino.
Tempo aggredito, rapito, assoggettato, nelle strade cambiate dalla mano che tutto prende. Ecco il millennio dell’infinito: Cristo ha vinto. Le sue risate di vittoria riecheggiano nello spazio introverso, tra le mura dell’interminabile prigione, l’amara conquista di specchi e di vite replicate sino all’uno finale, dove non resterà altro che non somigli a se stesso, fino ad annullarsi. Assoggettando tutti gli elementi in un grido disperato di morte, re infelice e vittorioso che tutto ha conquistato, niente ha avuto. La mensa è vasta quanto l’universo fino ai suoi limiti. La mensa è l’universo, che sembra dilatarsi nell’immortalità immorale, a prezzo dell’anima. E all’estremo, finirà nel silenzio di conquiste e mattanze lontane di mondi ancora ignari.
Molti di quelli che stanno su questa terra non hanno un destino, ma io non sono come loro.
Invecchierò con la consapevolezza di essermi macchiato soltanto della colpa di aver riso ogni giorno con tutto il fiato che avevo in corpo.
Gli errori commessi nella vita ci aiutano a crescere per il domani. Il problema rimane per chi persevera nell’errore.
Il futuro è come un insieme di cumuli neri all’orizzonte: potrà piovere ma dietro di loro splende il Sole.
Se il destino conduce i nostri passi è inutile preoccuparsi, ma se sono i nostri passi a condurre il destino allora guardiamo dove camminiamo.